Note a margine di una cartografia del deserto
A cura di Maria Paola Zedda
In primo luogo non desideriamo essere chiamati "profughi". Tra noi ci chiamiamo "nuovi arrivati" o "immigrati". Solitamente il termine "profugo" designava una persona costretta a cercare asilo per aver agito in un certo modo o per aver sostenuto una certa opinione politica. È vero, noi abbiamo dovuto cercare asilo; tuttavia, non abbiamo fatto nulla e la maggior parte di noi non si è mai sognata di avere un'opinione politica radicale. Con noi, il significato del termine "profugo" è cambiato. Ora "profughi" sono quelli di noi che hanno avuto la grande sfortuna di arrivare in un paese nuovo senza mezzi, e che per questo hanno bisogno dell'aiuto dei RefugeeCommittees.
Prima che la guerra scoppiasse eravamo ancora più sensibili al fatto di essere chiamati "profughi". Facevamo del nostro meglio per dimostrare agli altri che eravamo solo comuni immigrati. Abbiamo dichiarato di essere partiti di nostra spontanea volontà per paesi scelti da noi e abbiamo negato che la nostra situazione avesse qualcosa a che fare con i "cosiddetti problemi ebraici". Eravamo "immigrati" o "nuovi arrivati" perché, un bel giorno, avevamo lasciato i nostri paesi, nei quali non era più opportuno rimanere, o per ragioni puramente economiche. Volevamo ricostruire le nostre vite, e questo era tutto.
[…]Il nostro ottimismo, in effetti, è ammirevole, anche se siamo noi ad affermarlo. Abbiamo perso la casa, che rappresenta l'intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo. Abbiamo perso lanostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle reazioni, la semplicità dei gesti, l'espressione sincera enaturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di concentramento, e questo significa che le nostre vite sono statespezzate.
Tuttavia, non appena siamo stati salvati – e la maggior parte di noi è stata salvata parecchie volte – abbiamo cominciato le nostre nuove vite, cercando di seguire quanto più fedelmente possibile tutti i buoni consigli dei nostri salvatori. Ci è stato detto di dimenticare, e abbiamo dimenticato più velocemente di quanto sia possibile immaginare. […]
Per dimenticare meglio evitiamo anzi ogni allusione ai campi di concentramento o di internamento che abbiamo provato in quasi tutti i paesi europei […].Inoltre,cièstatodettotantevoltecheanessunopiaceascoltare tutto ciò; l’inferno non è più una credenza religiosa o una fantasia, ma qualcosa di tanto reale quanto le case, le pietre e gli alberi. […]
Dopo tanta sfortuna, vogliamo procedere sicuri. Perciò, abbandoniamo la terra con tutte le sue incertezze e volgiamo lo sguardo al cielo.
Hannah Arendt, Noi Rifugiati
A differenza dei reportage tradizionali, molte opere che oggi si misurano con la rappresentazione e più generalmente con la crisi della globalizzazione sono agitate da ciò che Demos definisce come principio di indeterminazione: gli artisti che si confrontano con eventi traumatici della nostra contemporaneità rifiutano la tradizionale relazione gerarchica tra autore e spettatore e la linearità di una tradizione unica e onnisciente. Si affidano invece a narrazioni e testimonianze uniche in prima persona, e spesso si avvalgono di una molteplicità di voci e punti di vista, in un montaggio di immagini e frammenti. È la nozione stessa di crisi e di indecisione a essere trasformata in metodo narrativo e in una funzione analitica ed estetica. […]
Alle prese con un sensazionalismo dell’immagine che è contraddistinto dalla voracità dei mezzi di comunicazione […]molti artisti contemporanei cercano nuove modalità di rappresentare i migranti senza sottoporli alla spettacolarizzazione del giornalismo più sensazionalistico rifiutandosi di soccombere alla estetizzazione della miseria. La guerra per il diritto all’immagine - così come la definiscono i registi del collettivo siriano Abounaddara - può in alcuni casi corrispondere a quello che Edouard Glissant definiva diritto all’opacità, ovvero la possibilità di sfuggire all’ipervisibilità che contraddistingue la società contemporanea e in particolare la rappresentazione dei rifugiati nei mezzi di comunicazione di massa.
Il diritto all’immagine e all’opacità si esprime nella ricerca di un rapporto empatico e di rispetto nei confronti dei propri soggetti e nel tentativo di trovare immagini che abbiano la densità e il peso necessario a sostenere la gravità dei fatti che ritraggono.
Massimiliano Gioni,La terra inquieta
Vista dalla lente dell’esilio la modernità assume i contorni di una sorta di catastrofe, una sorta di tempesta di implacabile violenza che travolge ogni prospettiva di riscatto. Così almeno scriveva Walter Benjamin a proposito di “quella tempesta [che] spira dal paradiso” che noi chiamiamo progresso, contemplata dall’angelo della storia (pensava all’acquerello di Paul Klee Angelus Novus).
“Questa tempesta spinge l’angelo irrimediabilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti al cielo”. […]
Riconsiderando quella modernità catastrofica a circa mezzo secolo di distanza, il verdetto che il filosofo palestinese Edward Said pronuncia conferma le cupe conclusioni di Benjamin: “Il nostro tempo è il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell’immigrazione di massa”. […]Tale è la modernità come esilio, caratterizzata dalle motivazioni che spingono a migrare e dagli effetti alienanti di capitalismo e nazionalismo, ma anche dallo squilibrio psichico di una Unheimlichkeit traumatica, come è intesa nel pensiero marxista e freudiano.[…]
Ma quando parla del tempo dei rifugiati Said ribadisce un concetto ostinatamente politico. La sua idea di migrazione mette a fuoco una contronarrazione ed espone il volto rimosso dei nazionalismi trionfanti, delle utopie e dei traguardi tecnologici del secolo scorso. […]
Teniamo presente che la mobilità è indice di una frattura psicogeografica ambivalente che chiama intrinsecamente il desiderio di casa e l’abbraccio dell’altrove e che in ultima analisi la migrazione è antitetica a qualunque significato unitario e quindi viene qui definita in base alle singole circostanze artistiche in cui si manifesta. […]
Agamben afferma: “Solo in una terra in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini.”
T.J. Demos, The Migrant Image
Désert di Leonardo Delogu rappresenta una riflessione sull’abitare, che assume nella condizione contemporanea un carattere di impermanenza, una forma sempre più mobile, mutevole, diasporica, precaria.
Il lavoro evoca le parole del filosofo Martin Heidegger che già nella metà del secolo scorso individuava nello sradicamento, nella mancanza di casa, fisica e metaforica, un destino mondiale.
La performance è un invito a vivere insieme un passaggio di tempo, ad accettare la provocazione dell’abitare comune, della condivisione di azioni semplici: camminare, osservare, nutrirsi, raccogliere segnali dall’oscurità, dalla luce blu del crepuscolo in attesa che cali la notte. Ci chiama ad attraversare insieme uno spazio liminale in un atto di ascolto, silenzio e sottrazione.
In questo tempo, si raccolgono i segni di un paesaggio migrante che prende forma progressivamente, che muove i corpi e si lascia muovere, che diviene immagine.
Il lavoro prende distanza dalla sovraesposizione mediatica, privilegiando una prospettiva obliqua. Asciugato dalla tendenza lirica e romantica del nomadismo, individuata dal regista come rischio di visione acritica, Désert, senza rappresentare, abita il presente. Senza enunciare, evoca le coordinate storiche geografiche e culturali in cui agisce e si consuma il nomadico.
Abita un tempo arcaico e insieme attuale come svelano i paesaggi che circondano lo spazio della performance: i luoghi del lavoro, le cattedrali industriali coesistono con la solitudine dell’antico che si erge come monumento e monito alla domanda ‘chi siamo’, lasciando apparire la visione sfocata di un’origine che cerchiamo ma non riusciamo a trattenere.
Maria Paola Zedda
In primo luogo non desideriamo essere chiamati "profughi". Tra noi ci chiamiamo "nuovi arrivati" o "immigrati". Solitamente il termine "profugo" designava una persona costretta a cercare asilo per aver agito in un certo modo o per aver sostenuto una certa opinione politica. È vero, noi abbiamo dovuto cercare asilo; tuttavia, non abbiamo fatto nulla e la maggior parte di noi non si è mai sognata di avere un'opinione politica radicale. Con noi, il significato del termine "profugo" è cambiato. Ora "profughi" sono quelli di noi che hanno avuto la grande sfortuna di arrivare in un paese nuovo senza mezzi, e che per questo hanno bisogno dell'aiuto dei RefugeeCommittees.
Prima che la guerra scoppiasse eravamo ancora più sensibili al fatto di essere chiamati "profughi". Facevamo del nostro meglio per dimostrare agli altri che eravamo solo comuni immigrati. Abbiamo dichiarato di essere partiti di nostra spontanea volontà per paesi scelti da noi e abbiamo negato che la nostra situazione avesse qualcosa a che fare con i "cosiddetti problemi ebraici". Eravamo "immigrati" o "nuovi arrivati" perché, un bel giorno, avevamo lasciato i nostri paesi, nei quali non era più opportuno rimanere, o per ragioni puramente economiche. Volevamo ricostruire le nostre vite, e questo era tutto.
[…]Il nostro ottimismo, in effetti, è ammirevole, anche se siamo noi ad affermarlo. Abbiamo perso la casa, che rappresenta l'intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo. Abbiamo perso lanostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle reazioni, la semplicità dei gesti, l'espressione sincera enaturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di concentramento, e questo significa che le nostre vite sono statespezzate.
Tuttavia, non appena siamo stati salvati – e la maggior parte di noi è stata salvata parecchie volte – abbiamo cominciato le nostre nuove vite, cercando di seguire quanto più fedelmente possibile tutti i buoni consigli dei nostri salvatori. Ci è stato detto di dimenticare, e abbiamo dimenticato più velocemente di quanto sia possibile immaginare. […]
Per dimenticare meglio evitiamo anzi ogni allusione ai campi di concentramento o di internamento che abbiamo provato in quasi tutti i paesi europei […].Inoltre,cièstatodettotantevoltecheanessunopiaceascoltare tutto ciò; l’inferno non è più una credenza religiosa o una fantasia, ma qualcosa di tanto reale quanto le case, le pietre e gli alberi. […]
Dopo tanta sfortuna, vogliamo procedere sicuri. Perciò, abbandoniamo la terra con tutte le sue incertezze e volgiamo lo sguardo al cielo.
Hannah Arendt, Noi Rifugiati
A differenza dei reportage tradizionali, molte opere che oggi si misurano con la rappresentazione e più generalmente con la crisi della globalizzazione sono agitate da ciò che Demos definisce come principio di indeterminazione: gli artisti che si confrontano con eventi traumatici della nostra contemporaneità rifiutano la tradizionale relazione gerarchica tra autore e spettatore e la linearità di una tradizione unica e onnisciente. Si affidano invece a narrazioni e testimonianze uniche in prima persona, e spesso si avvalgono di una molteplicità di voci e punti di vista, in un montaggio di immagini e frammenti. È la nozione stessa di crisi e di indecisione a essere trasformata in metodo narrativo e in una funzione analitica ed estetica. […]
Alle prese con un sensazionalismo dell’immagine che è contraddistinto dalla voracità dei mezzi di comunicazione […]molti artisti contemporanei cercano nuove modalità di rappresentare i migranti senza sottoporli alla spettacolarizzazione del giornalismo più sensazionalistico rifiutandosi di soccombere alla estetizzazione della miseria. La guerra per il diritto all’immagine - così come la definiscono i registi del collettivo siriano Abounaddara - può in alcuni casi corrispondere a quello che Edouard Glissant definiva diritto all’opacità, ovvero la possibilità di sfuggire all’ipervisibilità che contraddistingue la società contemporanea e in particolare la rappresentazione dei rifugiati nei mezzi di comunicazione di massa.
Il diritto all’immagine e all’opacità si esprime nella ricerca di un rapporto empatico e di rispetto nei confronti dei propri soggetti e nel tentativo di trovare immagini che abbiano la densità e il peso necessario a sostenere la gravità dei fatti che ritraggono.
Massimiliano Gioni,La terra inquieta
Vista dalla lente dell’esilio la modernità assume i contorni di una sorta di catastrofe, una sorta di tempesta di implacabile violenza che travolge ogni prospettiva di riscatto. Così almeno scriveva Walter Benjamin a proposito di “quella tempesta [che] spira dal paradiso” che noi chiamiamo progresso, contemplata dall’angelo della storia (pensava all’acquerello di Paul Klee Angelus Novus).
“Questa tempesta spinge l’angelo irrimediabilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti al cielo”. […]
Riconsiderando quella modernità catastrofica a circa mezzo secolo di distanza, il verdetto che il filosofo palestinese Edward Said pronuncia conferma le cupe conclusioni di Benjamin: “Il nostro tempo è il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell’immigrazione di massa”. […]Tale è la modernità come esilio, caratterizzata dalle motivazioni che spingono a migrare e dagli effetti alienanti di capitalismo e nazionalismo, ma anche dallo squilibrio psichico di una Unheimlichkeit traumatica, come è intesa nel pensiero marxista e freudiano.[…]
Ma quando parla del tempo dei rifugiati Said ribadisce un concetto ostinatamente politico. La sua idea di migrazione mette a fuoco una contronarrazione ed espone il volto rimosso dei nazionalismi trionfanti, delle utopie e dei traguardi tecnologici del secolo scorso. […]
Teniamo presente che la mobilità è indice di una frattura psicogeografica ambivalente che chiama intrinsecamente il desiderio di casa e l’abbraccio dell’altrove e che in ultima analisi la migrazione è antitetica a qualunque significato unitario e quindi viene qui definita in base alle singole circostanze artistiche in cui si manifesta. […]
Agamben afferma: “Solo in una terra in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini.”
T.J. Demos, The Migrant Image
Désert di Leonardo Delogu rappresenta una riflessione sull’abitare, che assume nella condizione contemporanea un carattere di impermanenza, una forma sempre più mobile, mutevole, diasporica, precaria.
Il lavoro evoca le parole del filosofo Martin Heidegger che già nella metà del secolo scorso individuava nello sradicamento, nella mancanza di casa, fisica e metaforica, un destino mondiale.
La performance è un invito a vivere insieme un passaggio di tempo, ad accettare la provocazione dell’abitare comune, della condivisione di azioni semplici: camminare, osservare, nutrirsi, raccogliere segnali dall’oscurità, dalla luce blu del crepuscolo in attesa che cali la notte. Ci chiama ad attraversare insieme uno spazio liminale in un atto di ascolto, silenzio e sottrazione.
In questo tempo, si raccolgono i segni di un paesaggio migrante che prende forma progressivamente, che muove i corpi e si lascia muovere, che diviene immagine.
Il lavoro prende distanza dalla sovraesposizione mediatica, privilegiando una prospettiva obliqua. Asciugato dalla tendenza lirica e romantica del nomadismo, individuata dal regista come rischio di visione acritica, Désert, senza rappresentare, abita il presente. Senza enunciare, evoca le coordinate storiche geografiche e culturali in cui agisce e si consuma il nomadico.
Abita un tempo arcaico e insieme attuale come svelano i paesaggi che circondano lo spazio della performance: i luoghi del lavoro, le cattedrali industriali coesistono con la solitudine dell’antico che si erge come monumento e monito alla domanda ‘chi siamo’, lasciando apparire la visione sfocata di un’origine che cerchiamo ma non riusciamo a trattenere.
Maria Paola Zedda