pensiero: da lat. pensāre è der. di pēnsum, part. pass. di pendĕre ‘tenere sospeso’ e quindi ‘pesare, soppesare’ In questo post provo a ridefinire il senso di alcune “parole cardine” del lavoro svolto in questi anni. Produrre e condividere pensiero intorno al lavoro artistico mi da la possibilità di entrare in contatto su un altro piano di comunicazione, per natura diverso da quello performativo. Sono convinto che il lavoro della scena abbia la sua radice in un movimento tellurico, che muova dentro una foschia, un indefinibile opaco fuori dal nome. Per me il fare teatro, o danza, o performance, è un processo di conoscenza del mondo e di me stesso, attraverso l’esperienza della creazione; e il luogo di partenza della creazione è buio, umido e tiepido, viscerale, cavo. È una condizione in cui il pensiero logico razionale, cede il passo ad un livello più sottile delle presenza, in cui le relazioni tra le parti hanno legami deboli, fragili eppure vivissimi, proprio perché inafferrabili. Detto ciò il nostro è il tempo dell’evidenza, dell’esposizione forzata, dell’illuminazione come strumento di controllo; è una solarizzazione che disintegra la nostra, in cui più ti esponi più di te ci rimane ben poco. Lo sforza da fare è quello di tenere insieme, ricucire la separazione e quindi accanto alla natura ombrosa del mio lavoro ho desiderio ti tenere accesa una fioca luce, un wattaggio leggero ma presente. In un tempo di perdita di peso delle parole, tornare a ragionare intorno al fare artistico mi sembra necessario. Per questo un primo esercizio, è quello di partire dalla radice linguistica di parole importanti, radicare: dal sanscrito vardh-ati elevare, crescere, prosperare. scendere in basso per salire verso l'alto. chi studia il corpo sa che il movimento verso l'alto e la verticalità stessa, sono il risultato di una forza di reazione alla forza di gravità che si chiama forza di anti-gravità. Quindi nelle leggi del corpo per poter salire è necessario scendere. Il corpo si organizza costantemente, in un movimento interno molto intenso, per dispiegarsi verso l'alto. Più il corpo è in grado di scendere nella sua radice,, il bacino, i piedi, e le superfici che toccano la terra più sarà possibile per lui liberare movimento verso l'alto. Inoltre la parola radicare in relazione ai luoghi apre le porte ad un ragionamento sullo sviluppo dell'attitudine umana alla stanzialità. Con l'azione dello stanziarsi l'uomo ha dato il via al suo sviluppo tecnologico, ma ha anche dato spazio e sviluppato un’evidente e devastante attitudine al dominio, alla colonizzazione, all'esaurimento del territorio in cui si insedia. Forse occuparsi diversamente della terra che si abita può portarci ad una nuova elevazione, alla conquista di una verticalità più profonda e meno arrogante. Forse la nostra ascesi passa per un rinnovato rapporto con la terra. Dal lato opposto vediamo il fenomeno dello s-radicamento forzato in cui oggi si sta relegando una parte della popolazione, in tutti gli angoli del mondo, dalle migrazioni da zone più povere a quelle più ricche di uno stato, alle grandi migrazioni dal sud al nord del mondo o dall'est all'ovest. L’uomo ha anche la possibilità di radicarsi nello sradicamento, è un albero in movimento. nomade: dalla radice del sanscrito Nam "inchinarsi al cospetto degli dei","rispettare le leggi divine" Gli uomini sono stanziali da qualche migliaio di anni mentre sono stati nomadi per molto di più. L'attitudine allo spostamento è quindi qualcosa che l'uomo ha fatto per tanto tempo, fin quando ha deciso di fermarsi ed insediarsi. Molti studiosi si sono interrogati su questo passaggio della specie umana, guardandolo come il momento cruciale che ci ha proiettato poi nell'epoca moderna. G. Agamben in un bellissimo saggio, l'aperto, parla della frattura tra l'uomo e l'animale,nel momento in cui l'uomo si è tirato fuori dalla catena alimentare e, da predato si è fatto predatore, il che ha coinciso con la costruzione degli insediamenti e delle proto-città. Oggi il Nomadismo è divenuto anche una chiave di lettura della contemporaneità, un concetto utile a guardare l'impossibilità di definire le forme, l'espressioni del nostro tempo, Oggi parliamo di nomadismo dell'identità culturale, dell'identità sessuale, parlano di nomadismo gli architetti che progettano nuove forme abitative. Mi piace infine mettere l'accento su quel "rispettare le leggi divine"della radice sanscrita; è come se all'origine della parola nomade ci sia inscritto il concetto di rispetto, di umiltà, di attenzione a quell'intorno "animato" in cui vivevano allora gli uomini. camminare: dal sanscrito kram [kr/kar/kra+m] “muovere verso con movimento misurato”, “fare un passo”, “progredire passo passo”. Del camminare abbiamo fatto uno dei nostri centri tematici ed esperienziali. lo abbiamo vissuto in diverse forme, come pratica meditativa individuale e collettiva, come viaggio lineare da un punto a un altro ( king [cammino], viaggio a piedi dal tirreno all'adriatico 17 gg per 306 km), come camminate alla deriva nelle periferie urbane. La nostra esperienza ci porta a dire che in primis il camminare è un addestramento del corpo alla continuità e alla lentezza. poi è un addestramento del pensiero, alla facilitazione dell'emersione di un ragionare che parte dall'osservazione, induttivo, non avvolto in se stesso. Poi è una pratica terapeutica delle tensioni emotive. Il camminare apre le porte, infine, ad una dimensione simbolica del processo creativo, fatto di piccoli passi, di un progredire ritmato, passo dopo passo. corpo: dal sanscrito krp [kr+p] "dare forma" [kr] "a ciò che è puro[p]" "far risplendere i riti sacri" Per chi si occupa della scena il corpo è visto come lo strumento privilegiato di lavoro. Tutta la nostra ricerca è partita dal corpo, dalla costruzione di un corpo percettivo, in grado di connettersi con lo spazio e con gli altri, in grado di esprimere e trasfigurare ciò che sente. Quindi il corpo, per noi, è lo strumento del sentire, prima di essere lo strumento del fare. In questo momento siamo concentrati a studiare il potenziale percettivo del corpo, cioè la sua capacità di mettere in luce, di rendere visibile quello che c'è. Il corpo ci appare come un paesaggio complesso, una cartografia della storia e delle caratteristiche dell'anima che lo abita. Il corpo è anche il campo dove insistono e si organizzano le forze della natura, lo spazio, il tempo, la forza di gravità etc. il corpo quindi parla al di là di quello che fa, è un ente irradiante, che vive della relazione tra le parti che lo compongono e il luogo che abita. Non c’è corpo senza un paesaggio che lo contenga, non c’è paesaggio senza un corpo che lo abiti e lo contempli. In ultimo ci sembra di poter dire che il corpo è il luogo privilegiato del movimento, sia interno che esterno; è, per l'uomo, il tempio della vita. La nostra cultura ha operato nei secoli una frattura , di cui tanto si è parlato, tra corpo e mente, ha introdotto una dualità ontologica. Facciamo parte di chi sostiene la limitatezza di questa visione, di chi nell'esperienza cerca e verifica costantemente l'unità del corpo, in cui la mente è uno degli elementi che lo compongono. Con corpo quindi non definiamo solo l’aspetto materico ma la sintesi di tutte le parti che lo compongono, un entità autonoma, dentro un legame d’interdipendenza costante. Soltanto riportando il corpo nella dimensione del sacro, togliendolo dalla volgarità dell'esposizione egotica o dalla violenza della frammentazione medica, ricostruendo, attraverso un lavoro quotidiano, quell'aurea di mistero, di unione mistica, che anima la radice della parola corpo possiamo vedere avanzare l’ombra rinnovata della nostra specie . L.D.
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I giardini sono lo spazio in cui si esprime la vita, sono un luogo fisico, un luogo del pensiero e un luogo dell'anima. Non ho deciso di occuparmi di giardini; i giardini sono apparsi, hanno trasformato l'occhio, e la luce che arrivava dagli spazi abbandonati, indecisi, sospesi, oggi ha dato luogo ad una nuova visione. Non più rovine ma giardini, non più abbandoni ma luoghi di vita, da cui ri-orientare la vita.
I giardini sono la luce serale con cui guardare le macerie, sono la prospettiva poetica degli abbandoni. Di più. I giardini sono la possibilità di un modo nuovo di concepire la relazione; questi si basano su un principio biologico fondamentale, quello della coabitazione. All’interno di un giardino le piante e gli animali trovano la strada per realizzare ognuno il proprio progetto personale, adeguandosi e relazionandosi con i progetti personali degli altri abitanti. Hanno, pur con un linguaggio muto, una modalità di crescita poggiato sulla collaborazione Per questo mi interessa studiare i giardini, perché mi parlano di un luogo, di un eterotopia, come dice Foucault, dove si esprimono modalità diverse rispetto a quelle del potere costituito. Paradossalmente, proprio laddove sono affascinato dallo studio del linguaggio muto di collaborazione delle piante, scopro che nelle fondamenta del pensiero filosofico orientale e occidentale ci sono i giardini: i giardini persiani e arabi della mistica sufi e la prima scuola filosofica dell'occidente: il giardino di Epicuro. In realtà sono il luogo del pensiero perifierico, di quel pensiero marginalizzato, messo da parte, laterale, di cui abbiamo perso le tracce, di cui abbiamo perso i testi, che ha preferito vivere nella pratica trasmessa oralmente, più che essere codificato. Il giardino, come dice Gilles Clement, è la rappresentazione del pensiero del tempo. E dunque qual'è il giardino che rappresenta il nostro tempo? che tempo abitiamo? Mi piace l'idea di costruire un luogo di pratica e di pensiero che abbia come centro d'indagine la fisiologia di sviluppo e di relazione delle piante e un luogo dove osservare l'espressione della relazione dell'uomo con la natura. Vorrei costruirne una disciplina, un'attitudine dello spirito all'ascolto. Perché è attraverso l'ascolto che è possibile concepire una serie di pratiche di cura, funzionali alla creazione del contesto giusto perchè si dispieghi la vita e moltiplichino le specie. Una disciplina dell’osservare, del corpo che ascolta e rispetta lo spazio fra le cose, il campo sensibile di ciò che vive. Una ripartenza da una disciplina che ricolloca l’uomo in un lavorio giornaliero di piccole azioni mirate e studiate che hanno la funzione di dare spazio alla creazione, di creare le condizioni perché il movimento continuo sottostante si dispieghi. Ecco che l’arte, la creazione non sono più il frutto e l’espressione dello sforzo del genio umano, ma il risultato della relazione misteriose tra le cose sotto lo sguardo amorevole, contemplativo, largo dell’uomo. Da qui muovo verso la disciplina del campo. L.D. |
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May 2016
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