CONTATTARE LA RADICE/STRAVOLGERE LA FORMA Ovvero come il teatro ci salverà, (forse). Prefazione a un libro che non vedrà mai la luce. Radice: dal sanscrito vardh-ati, “elevare”, “crescere”, “prosperare”. Scendere in basso per salire verso l'alto. Forma: dalla radice indoeuropea vid, “si distingue alla luce”, da cui il greco eidos. Rintracciare la matrice linguistica delle parole ci aiuta a capire da dove veniamo e verso dove ci stiamo orientando. Cercare la radice non è un’operazione nostalgica è piuttosto un contro movimento, che aggancia la nostra proiezione in avanti, di pensiero e di linguaggio, al luogo di provenienza, scendere in basso per salire verso l’alto, come ci racconta l’etimo sanscrito della parola “radice”. Potremmo pensare al gesto del camminare, dove il piede spinge nella terra sotto di noi per traguardare l’altro piede nella terra davanti a noi, oppure all’angelo della storia di Walter Benjamin che pur sospinto nel futuro dal vento del progresso rivolge il suo sguardo alle rovine del passato. In questo piccolo testo mi prefiggo l’obiettivo di guardare alla radice del teatro per coglierne la proiezione nelle forme della contemporaneità, dove per forma non s’intende invenzione ma ciò che si distingue per esercizio della luce, che si stacca dall’ indistinto dell’ombra. Cercherò anche di spiegare perché, nonostante la sua progressiva perdita d’influenza, il teatro mi sembri un importante strumento di conoscenza, lo strumento migliore per aprire domande sul nostro periodo storico. Siamo abituati a pensare che il teatro sia nato nella Grecia classica: e prima? Sappiamo dagli studi dell’antropologo Victor Turner, che il teatro potrebbe derivare da preesistenti riti di comunità, riti di culture animiste, che sono sopravvissuti e hanno trovato una nuova casa dentro il dispositivo teatrale. Tra questi, quello che identifico come la matrice del teatro è il rito sacrificale. Ne “L’ardore”, Roberto Calasso, indagando la tradizione Vedica, descrive il rito come una serie di gesti composti (la coreografia) e di parole selezionate (il testo teatrale) che sono sapientemente orchestrate dagli officianti (gli attori/danzatori) di fronte ai destinatari del rito (il pubblico), in un luogo e in un tempo determinato (la scena). Se, come afferma Calasso, “il verum ipsum factum non valeva per loro.Perché l’unico factum collegato a un verum era l’azione liturgica. Tutto ciò che si svolgeva prima, e al di fuori, del rito apparteneva al vasto regno sfrangiato della non-verità” allora questa popolazione vissuta 3000 anni fa era già alle prese con la questione del reale e della sua rappresentazione, anche se per i Veda, al contrario di quanto suggerisce il nostro senso comune, la non verità corrispondeva alla vita fuori dalla rappresentazione rituale. Il luogo del sacrificio si configura come “ l’origine della scena, come luogo predisposto ad accogliere tutti i possibili significati. Quanto di più moderno – anzi la scena stessa del moderno”, e l’officiante come “uno di quegli esseri dediti al gesto, che si affaccendavano nelle operazioni di rito, mormorando le formule in una sorta di brusio ininterrotto.” Nel rito “c’è il gesto - e c’è l’attenzione che si concentra sul gesto. L’attenzione trasmette al gesto il significato”. Quest’affermazione, per chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il lavoro della scena risuona come una possibile indicazione tecnica per essere in presenza, per far aderire il pensiero al gesto, per uscire dalla dualità. Nell’incessante ricerca di essere al presente si consuma gran parte del mestiere e del dramma dell’attore. Nel rito - in quanto uomini che il pensiero distacca dall’istantaneità animale - siamo chiamati alla ricerca della sincronia tra gesto e pensiero, e per questo siamo chiamati a fallire. C’è un di più, però, che dimora nella parola “sacrificio”. La nostra cultura ne ha perso il senso profondo colorandola di sangue, di dolore, riducendola a sinonimo di privazione. Ma in origine “sacrificio” è “sacrum facere”; è l’atto che attraverso il dono, la perdita, la morte, il distacco avvicinava l’uomo alla divinità, all’unità. Il sacrificio è ovunque l’uomo sia in grado di leggerlo, riguarda tutto anche una pianta o del latte. Quando la tradizione vedica arriva in Grecia, i riti si trasformarono, gli dei cambiano nome, e nell’incontro con la sensibilità politica greca nasce il teatro, per sua natura, in media res, tra i fatti visibili, la politica e quelli invisibili, i riti. Nel tempo e nello spazio del teatro, il cui campo di battaglia è il corpo dell’attore, si verifica un’impennata dell’attenzione collettiva - o meglio - una caduta dentro l’attenzione, che permette a chi partecipa del rito di entrare in contatto con l’extra – ordinario, di sentire l’invisibile. Questo differenzia il teatro da tutte le altre arti, nessuna delle quali ha questo carattere epifanico dove l’opera esiste pienamente solo nel momento dell’incontro, dentro lo spazio della relazione tra attori, pubblico e apparato scenico. Non un evento ma un accadimento che si fa visibile in un intervallo di tempo preciso ma inaspettato. Se mettiamo in relazione questo carattere peculiare dell’arte performativa con le questioni che animano il nostro presente, ci accorgiamo che quest’arte è potenzialmente lo strumento migliore per indagare le domande aperte della contemporaneità. Le domande più forti dell’oggi, sono situate nel campo di studio della separazione tra uomo e ambiente. Fino a 2000/3000 anni fa noi uomini eravamo una specie assolutamente “eco-sostenibile”. L’operazione di distacco delle nostre idee dall’esperienza del circostante ci ha posto fuori dallo spazio naturale, pensato come esterno a noi, “environement” etimologicamente, a una certa distanza, appunto. Pensiamo l’esterno da noi come un territorio con i suoi abitanti animali e vegetali da sfruttare e quindi manipolare per ottenere il più possibile, oppure come il luogo della minaccia da cui proteggersi, da ordinare contro l’entropia, il caos. Per sondare questa scissione ho cominciato a indagare le forme in cui si manifesta la relazione tra uomo e ambiente e ne ho ipotizzato una sintesi nelle pratiche di nomadismo e stanzialità: due modi di agire il mondo che mi sembrano comprendere tutti gli altri. In questo moto perpetuo tra andare e stare, mi sembra si racchiuda il viaggio della presenza dell’uomo sulla terra. Anche qui la nostra cultura ha operato nella separazione estremizzando ed elevando a supremazia a volte il nomadismo (il pensiero contro culturale dai situazionisti in poi, ma anche il nuovo capitalismo volatile e sempre in movimento) a volte la stanzialità (il potere economico fondato sul concetto politico di nazione e identificato nel modello della città metropolitana). Sembrano due concetti separati ma, a ben guardare, sono uno lo specchio dell’altro e non si manifestano mai da soli. Quello che varia è l’intensità. Guardando allo spazio tra i due fenomeni, al punto in cui collidono e configgono, nomadismo e stanzialità si rivelano un paradigma della relazione uomo - ambiente delineando l’ambito politico principale su cui dispiegare la ricerca teatrale. Questo tema della separazione è speculare alla scissione del pensiero verbale razionale dall'apparato istintuale, percettivo. Lo iato tra ciò che sento e quello che penso, dico, faccio, la non istantaneità dei due processi, la presenza di un salto dove s’infiltra il pensiero-linguaggio è la causa della percezione di estraneità che l’umano ha del mondo naturale. Su questa percezione di estraneità si è declinato progressivamente lo sviluppo della tecnica e del progresso. Quello che a volte chiamiamo fuoco sacro della ricerca, si genera dallo stesso ceppo da cui si genera il desiderio di dominio dell’uomo sugli altri. I problemi di finitezza dello spazio vitale e delle risorse che ha posto il pensiero ecologico, non sono più rimandabili e vengono a parlarci esattamente di questa separazione, dell’incapacità di pensarci come parte di un tutto più grande. Ma proprio “ il divario, lo spazio, tra il pensiero- linguaggio e la realtà circostante è dove può nascere l’innovazione radicale, l’utopia”. L’operazione di divaricazione tra il pensiero e il reale è quindi biforcuta, contiene la nostra fortuna e la nostra disfatta. Credo che anche l’arte, che ha molto trasformato la sua natura a fronte dell’illusione capitalistica del secolo scorso, debba necessariamente misurarsi con la finitezza. Oggi tutto ci parla di un super finito. L’infinito non esiste più, anche la fisica per la prima volta ha seriamente messo in discussione questo concetto; dalla granularità della materia, dal limite della biosfera alla finitezza delle risorse naturali, fino ad arrivare al campo enorme, ma non infinito, delle possibilità. Un super finito, che offre una “sensazione” d’infinito, ma che, di fatto, non lo è. Il concetto chiave del sogno capitalista, oggi viene ribaltato: la realtà, con tutto il suo portato di complessità, torna a essere il centro della ricerca artistica. Questa nuova attenzione al reale declina in ambito poetico ed estetico la domanda sulla relazione uomo – ambiente, con il rischio però di ridursi a un passaggio fisiologico dal dentro al fuori, dallo studio dell’interno umano tipico del novecento, (a teatro il salotto borghese, la psicologia del personaggio, il monologo, il virtuosismo) allo studio del paesaggio e alle dinamiche esterne tipiche della contemporaneità: cicli. Questo non basta. Non si tratta di concentrarsi su due oggetti di studio ma sul loro intervallo. Si tratta di abitare lo spazio tra le cose, il luogo del possibile, della potenzialità un campo segnato dal movimento in entrata e in uscita di fondamentale importanza per comprendere il funzionamento della vita. La meccanica respiratoria conquista anche nel nostro occidente culturale la sua centralità. Lo spazio della relazione, il campo in cui agire per generare cambiamento è abitato dal movimento. Qui la visione si offusca, perché lo spazio di mezzo è il territorio delle nuvole, della nebbia, in cui niente è definito e tutto è in potenza. Dentro questo scarto possono apparire gli angeli (Angiras in sanscrito vuol dire spirito divino. Angaros in persiano significa corriere. Angeles in greco significa messaggero), possono compiersi i miracoli. La visione si accende nello spazio tra due punti di chiarezza, dove sono consegnati i messaggi, dove le forze invisibili hanno lo spazio e l’attenzione giusta per arrivare a parlare agli orecchi degli uomini. La fisica e la neurobiologia stanno dirigendo i loro studi verso quello che da sempre è il campo di lavoro di una certa ricerca artistica. L’umano si colloca in quello spazio indefinito, nella capacità di stare nell’indecisione. Gli animali non hanno mai indecisioni - sentono e agiscono di conseguenza – mentre noi abbiamo divaricato enormemente lo spazio tra il sentire e l’agire. Oggi in molti rivolgono lo sguardo a questa cesura, è richiedono contestualmente il diritto all’opacità riconoscendo come fondamentale il bisogno di ritornare a considerarci come parte di un organismo più grande, senza dimenticare lo spazio che abbiamo consegnato agli angeli. Il grande lavoro da fare è riuscire a cucire insieme queste due prospettive. Quello della performance è il territorio ideale dove innestare queste domande perché il suo campo di studio è ontologicamente lo spazio della relazione. L’attenzione al punto di passaggio, alla membrana, alla porosità, allo spazio tra le cose è costitutivo delle strutture dell’arte performativa. Come il rito, il teatro, è per sua natura situato nello spazio-tempo e avviene in una dinamica relazionale. Per questo - a patto di assumersi la responsabilità della sua radice primitiva e di trasformare, radicalmente, la sua forma, a fronte delle tensioni del presente – il teatro appare il luogo ideale per porre le domande che attraversano la contemporaneità per sottrarre la realtà al materialismo e a tristi visioni primitiviste e arcaiche e per scongiurare il rischio, dopo aver attraversato la santificazione del materiale, di santificare l’immateriale da un lato e un materialismo mortificante dall’altro. Il teatro si concentra sulla realtà senza perdere la sensazione fisica del mistero. Un esponente di spicco dell’azionismo viennese degli anni ‘60 ’70, quest’anno porterà una sua opera a Palermo. Anche qui, come in quasi tutti i luoghi in cui ha presentato il suo lavoro, parte della cittadinanza si è sollevata perché l’artista, Hermann Nitsch, è famoso per l’utilizzo di cadaveri animali durante le sue performance. Sostiene di creare dei riti estatici legandosi alla tradizione misterica dell’occidente. Per quanto qualunque censura sia un’operazione conservatrice e dannosa, l’indignazione di una popolazione di carnivori che si disgusta di fronte ad un atto che quotidianamente è compiuto, in maniera seriale, nelle segrete stanze dei mattatoi, per riempire le nostre tavole, fa sorridere tanto quanto l’insistenza di una pratica artistica nel replicare qualcosa che ormai non trova più nessuno spazio per incontrare l’anima delle persone, invece di stravolgere le forme per contattare un reale possibile in cui compiere il rito misterico. Confondere il rito con il sensazionalismo dell’evento mediatico finisce per essere un’operazione molto funzionale al sistema di potere costituito, e a quel “rifiuto del mistero” su cui si è costruita la cultura occidentale. Quello che dovrebbe interessarci oggi del rito è la qualità della tensione e dell’attenzione, un certo silenzio che precede e segue l’atto. Oggi difficilmente rintracciamo questo dentro la quotidianità,. Quello che ci manca è lo spazio del silenzio. In un mondo costruito su la distrazione, la performatività, l’abbaglio del profitto e la fissazione emotiva (cioè sulla perdita di capacità di movimento dell’emotività, parola che ha in se il senso dello spostamento e che oggi invece è bloccata, rinchiusa, salvo poi esplodere in eccessi ed estremi) l’arte dovrebbe occuparsi di costruire “quegli spazi di silenzio che non servono a niente se non ad esistere.” Ma l’esempio di Nitsch porta all’attenzione anche un’altra parola chiave per l’arte della contemporaneità: Il conflitto. Il punto fondamentale è che l’arte dovrebbe generare conflitto, e non rappresentarlo, eseguire un rito e non simularlo. Invece di rappresentare il conflitto – solitamente con esiti poco convincenti – dovrebbe concentrarsi sul risultato che scaturisce dl suo essere. Un conflitto conseguente, frutto di un naturale e ontologico posizionamento anti-egemonico dell’arte performativa dentro il sistema tardo capitalista che stiamo vivendo. Senza confondere l’arte con l’attivismo. Il conflitto è l’altro lato del rito. Ora il titolo di quest’articolo potrebbe essere cosi rivisto: contattare la radice e tornare al rito per stravolgere la forma e generare conflitto. Se percorresse la strada della radicalità, il teatro potrebbe far deflagrare il conflitto nel presente, esercitando la sua funzione di connessione con il mistero. Più riesce a costruire degli altrove concreti, più il teatro genera conflitto, e quindi movimento. Credo che l’errore che corra l’arte contemporanea sia quello di non vedere più la sua funzione di ponte con il mistero laddove la disperazione del presente chiede a tutti, artisti compresi, una presa di parola. Ma l’arte è come abbiamo detto all’inizio strutturalmente in media res, in bilico, e quindi perde la sua funzione politica nel momento in cui assume una veste dichiaratamente politica. L’arte deve continuare a muoversi, a disfare, a non consolidare certezze e punti di vista, e allo stesso tempo a produrre esperienze concrete di diversità. La scommessa del presente è come l’arte riesca a fare questo mantenendo viva la relazione con quel reale che oggi urla partecipazione, presenza, umanità. Detto ciò la domanda urgente dell’ora, è come stravolgere le forme del teatro perché possa ancora compiersi il rito. Qual è il “luogo della meraviglia” e dello stupore oggi? Quali pratiche vengono a sostenere le domande della contemporaneità dentro le strutture della performance? Quali gesti, quali parole, quali presenze, quali palcoscenici compongono la liturgia moderna? Qual è il rimosso dei nostri tempi, dove e come produrre conflitto? Elenco qui alcune pratiche frutto dell’esperienza degli ultimi anni di lavoro che pur non rispondendo a queste domande provano ad abitarle. Le lascio comparire nella nebbia della sola nominazione. 1- Camminare come pratica di apertura dello spazio della relazione e riappropriazione fisica e temporanea dello spazio pubblico. 2- Esporre il corpo alle intemperie atmosferiche, ai paradossi del tempo. Leggere il corpo come il campo di battaglia della modernità, il primo luogo-margine tra dentro e fuori. 3- Occupare il margine fisico e simbolico del mondo. Farlo gioiosamente. 4- Rompere con il concetto d’inutilità dell’arte. 5- Fare del teatro il luogo del possibile, della diversità: un’eterotopia in movimento. 6- Praticare il teatro come un giardino, la regia come un giardiniere, l’atto performativo come lo sbocciare di un fiore, l’uccisione di una preda, la caduta di un ramo. 7- Osservare il reale ed eleggerlo a proprio campo di studio. Fare della realtà il luogo elettivo del mistero, la scena ideale del sacrificio, il posto della deflagrazione del conflitto […] Il teatro come afferma Michel Foucault è un’eterotopia, un luogo concreto dove sperimentare la diversità. Fare esperienza, partecipare di questo spazio porta lo spirito a calibrare la propria visione del mondo e il proprio posizionamento nel mondo. Se “il mondo è un campo di forze, e noi siamo una delle forze che agiscono in questo campo, cambiare, porsi in un modo nuovo, produce un cambiamento nel mondo”. Per questo è importante riguardare al teatro nella sua origine rituale e sacrificale; Recuperare la sua funzione di ponte con l’anima mundi e, attraverso questo contatto, attraverso il conflitto, mondarci, cambiare punto di vista sperimentando pratiche di alterità alla cultura egemonica, vettori per riposizionarci come forza nello spazio e cosi trasformare l’alchimia nascosta del mondo stesso. Ecco perché il teatro ci salverà. L.D.
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